In questi giorni è stato pubblicato sul blog  sostelevision.it un articolo che vuole dare un contributo alla situazione del dopo terremoto.

Partendo dall’approccio di comunità si è voluto approfondire alcuni aspetti che dovrebbero essere presi in considerazione dopo un evento traumatico e valorizzati per la ricostruzione sia della vita delle persone che dei luoghi.

1. Uno sguardo psicologico alla comunità

Il sisma rappresenta un evento traumatico e di rottura nella vita delle persone, delle famiglie, ma anche delle comunità locali delle quali frantuma gli equilibri.

Per le diverse comunità, come del resto per le persone, il terremoto rappresenterà un “segnatempo”, uno spartiacque. D’ora in poi, ci sarà un prima e un dopo il terremoto nella storia delle comunità colpite dal sisma.

Del dopo fanno parte anche la fase di transizione e la ricostruzione che molti vivranno nelle comunità temporanee delle tendopoli.

In questa fase, le persone si trovano a convivere con lo stress post trauma, ma si trovano anche a vivere una vita di relazione in una condizione decisamente diversa da quella che c’era prima del sisma.

Crollate le case che garantiscono protezione, riparo, privacy, continuità e certezza del proprio spazio, le persone devono affrontare una vita di comunità, potremmo dire una vita in comune, inedita e per molti aspetti assai difficile. Non solo perché costretti a fare a meno di ciò che solo la casa propria può garantire, ma anche perché costretti a condividere spazi e momenti, servizi, risorse in una misura che non si è più abituati a fare.

Alle comunità delle tendopoli si cerca di dare il massimo, in termini di organizzazione, di servizi, di attività culturali e di sostegno individuale. Pur riconoscendo eventuali disfunzioni, non si può certo negare lo sforzo che viene fatto per alleviare il dolore e curare le ferite del sisma.

In questo quadro ci sono però due domande che meritano attenzione da parte di chi si occupa delle comunità da un punto di vista psicologico.

A. La prima domanda riguarda quanto queste comunità vengono considerate soggetti, attori, protagonisti della loro vita, pur nel disastro del terremoto.

B. La seconda riguarda le scoperte, gli apprendimenti resi possibili proprio dall’esperienza delle comunità delle tendopoli che, se apprezzati, possono essere stimolo per la riscoperta delle relazioni come valore da presidiare.

Esplorare queste due domande con uno sguardo psicologico e portare l’attenzione sul processo di empowerment individuale e comunitario in una situazione come quella del post terremoto è l’obiettivo di questo contributo.

2. Soggetti da assistere e soggetti competenti

“Ci hanno dato tutto, ma non contiamo nulla”, dichiarava un cittadino il giorno dello smantellamento di Piazza d’Armi a L’Aquila (5 settembre 2009).

Nel momento dell’emergenza, ovvie ragioni organizzative impongono di ridurre al minimo o addirittura di evitare il coinvolgimento e la partecipazione delle comunità nella vita che le riguarda. Questo è necessario nel momento dello sbigottimento, quando ci sono persone da estrarre dalle macerie, quando si devono impedire azioni che comportano rischi. Ma questa regola si giustifica anche mesi dopo?

Trattare le persone colpite dall’evento sismico come soggetti “menomati”, mantenerli per mesi in una condizione di passività, dove tutto è garantito dall’aiuto di un esercito di operatori, volontari, professionisti, militari, trattati con tutti i riguardi come soggetti da assistere, perché privati di tutto, compresa la loro capacità di pensiero, parola, di azione, è proprio necessario?

“Non vi preoccupate, ci pensiamo noi” era il messaggio ripetuto incessantemente da tutto il personale a L’Aquila, con evidenti scritte sulle magliette per distinguerli dai “terremotati”.

Le persone si sono trovate private non solo della casa e di quant’altro il terremoto aveva loro distrutto: si sono trovati a non avere più i compiti quotidiani e, soprattutto, a non avere più responsabilità.

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Vivere senza compiti e senza responsabilità fa male a tutti. Distrugge l’autostima di qualsiasi persona. Figuriamoci di persone che, soggiogate dalle forze della natura, altro non possono fare che riconoscersi in “balia”, quindi impotenti.

Sentirsi impotenti produce rabbia o disperazione. Tu non devi fare nulla. Pensiamo a tutto noi. Non ci sono decisioni da prendere. Il campo è gestito in modo militare. Tutto è previsto e se qualcosa non funziona si provvede subito. Se ci sono assemblee dei membri della comunità sono per dare agli abitanti delle tendopoli informazioni, non per ascoltare le loro idee e, tanto meno, per decidere insieme.

L’organizzazione sa cosa è il bene di ciascuno e di tutti e vi provvede. Senza alcun potere contrattuale, in una condizione si sospensione di alcuni diritti sociali, contornati da persone che fanno il massimo per garantire a ciascuno tutto ciò che è possibile, il messaggio è: “Noi facciamo di tutto per non farti mancare nulla, ma tu non puoi pretendere nulla”.

La presenza e il contributo degli psicologi rientrano in questo sforzo per “dare tutto”, per non far mancare nulla.

Nel momento critico dello smantellamento di P.zza d’Armi, però il gioco si è svelato. Al tutto che veniva dato, mancava un aspetto importante: mancava il potere. Le persone sono ospiti nei campi. Non sono a casa loro. I campi non sono loro. Appartengono alla Protezione Civile. Questo aggrava il senso di impotenza.

Il coinvolgimento e la partecipazione sono dunque un aspetto critico e rispetto a questo servirebbe un pensiero.

Noi sappiamo che la possibilità di esercitare un qualche potere è fondamentale per le persone e per la comunità. Aiuta il recupero e a riprendere la vita normale. L’empowerment in questi momenti non è considerato un fattore di recupero, bensì come un lusso che non ci si può permettere. O addirittura, la questione non è presa neanche in considerazione e il contributo degli psicologi viene relegato alla funzione di elaborazione del trauma, o di contenimento della rabbia o di mediazione nel momento in cui le persone cercano di ribellarsi alla condizione di impotenza a cui sono condannate.

A persone private di impegni e responsabilità dobbiamo poi proporre terapia occupazionale e svago. Meglio sarebbe avere un metodo per attivare la comunità e farla partecipare, valorizzandone le risorse, naturalmente riconoscendo le caratteristiche delle diverse fasi dell’emergenza e delle diverse comunità.

3. La vita di comunità nelle tendopoli: difficoltà e apprendimenti

Senza potere e senza responsabilità, le persone si trovano a fare una vita di comunità nelle tendopoli.
Sono scontate le difficoltà e i disagi della vita nelle tendopoli che tutta l’organizzazione si impegna ad alleviare. L’inevitabile confronto con la vita prima del terremoto e nella propria casa metterà in evidenza soprattutto le mancanze della vita in tendopoli, quello che la tenda e la tendopoli non possono garantire: la privacy, la comodità, la cucina, insomma tutto quanto la propria casa può offrire.

Non è da escludere però che alcune persone possano scoprire, magari con sorpresa, degli aspetti positivi o quanto meno stimolanti della nuova situazione.

Così come nessuno può affermare che una tenda è meglio di una casa, è fuori discussione

che la tenda è più sicura in caso di una nuova scossa, fornisce opportunità che la casa non può dare. Così nessuno può affermare che la vita nella tendopoli è meglio che la vita nel paese o nel quartiere. Tuttavia la vita nelle tendopoli offre alcune opportunità.

E’ pensabile che qualche abitante possa coglierle, queste opportunità? E che scopra degli aspetti che è possibile portarsi dietro dalla tendopoli?

Senza generalizzare, perché ci sono evidenti differenze fra le persone, le famiglie e anche fra le diverse tendopoli, ma anche senza voler idealizzare la vita nelle tendopoli, ipotizziamo cosa le persone possono scoprire in questa forma forzata di vita in comune.

Ogni campo ha una propria storia, nonostante tutti abbiamo la stessa organizzazione e siano governati con le stesse regole. Ha una propria identità che dipende da una serie di fattori: come è nato, come è composto; che relazioni avevano le persone prima di giungere al campo. Molte diversità riguardano il senso di comunità. Al di là dell’uniformità delle tende della Protezione civile, ogni campo ha la sua originalità e forse permette alle persone di vivere in modo più o meno sereno e di valorizzare cose diverse.

Forse qualcuno, pur nel disagio e nel dolore, può trovare spunti di riflessione, può prendere in considerazione aspetti ai quali, in condizioni di normalità, non avrebbe dedicato particolare attenzione. In altre parole, questa nuova situazione permette ad alcuni di scoprire aspetti nuovi di sé, degli altri, delle relazioni. A volte ciò avviene come piacevole sorpresa. Altre con disappunto.

La prima cosa che forse si capisce è che, per quanto importante, l’evento traumatico non può spiegare tutti i comportamenti. Le persone sono sempre in gioco con le loro risorse e non solo con i loro disagi e i loro problemi. Ci sono dei fatti e dei comportamenti che non possono essere spiegati con il trauma, né con l’esigenza di assistere le persone “traumatizzate”.

Possono scoprire, ad esempio, che persone marginali in una situazione normale, hanno trovato un ruolo e hanno fatto da collante per la comunità. Possono scoprire di avere delle risorse che non pensavano di avere, e rendersi conto dell’esigenza di darsi reciprocamente fiducia. La necessità di confrontarsi con più punti di vista emerge in tutta la sua faticosa ricchezza.

Le persone scoprono una socialità che non conoscevano o che avevano perso, il sentimento di fratellanza, la percezione di essere di fronte ad un destino comune, la serenità delle relazioni. I giovani/adolescenti scoprono la dimensione comunitaria e gli anziani ritrovano le relazioni di un tempo e un modo nuovo per stare insieme.
Chi si occupa di raccogliere, valorizzare, rinforzare queste esperienze? Verranno organizzati momenti di riflessione comune su questi aspetti?

Tutto questo è ciò che permette di non considerare l’intervento post-trauma solo come cura di una ferita, ma anche come processo di crescita individuale e collettiva, come occasione di empowerment e di sviluppo di competenze per la convivenza, di cui oggi c’è un grande bisogno. Servirebbe una figura in grado di aiutare le persone a realizzare una convivenza serena, a gestire i conflitti e trovare un senso condiviso alla fatica che la situazione comporta.