Sapevo veramente poco degli amministratori di condominio, fino a qualche anno fa. Anch’io, come molti altri, non conoscevo la complessità del loro lavoro e me li immaginavo come coloro che fanno i conti per il condominio.

Finché, nel  mio lavoro di psicologo della comunità, interessato ad affrontare i problemi delle persone nei contesti in cui abitano, non ho avuto la possibilità di incontrare qualcuno di loro, di fare lunghe e interessanti chiacchierate che mi hanno permesso di farmi un’idea più precisa di chi sono, cosa fanno e cosa potrebbero fare rispetto ai problemi delle persone che vivono negli stabili da loro amministrati.

Anche sulla base di una breve indagine che ha coinvolto una cinquantina di amministratori che operano in diverse regioni e in diversi contesti, mi sono convinto  che gli amministratori condominiali sono delle risorse molto importanti per le persone e per la collettività,  poco riconosciute e, quindi, poco valorizzate. Forse anche a causa della rappresentazione sociale di questa  professione, considerata una professione minore e della reputazione, non sempre buona, di cui gode la categoria.

Al di là delle differenze significative che ci sono fra gli amministratori, per età, formazione, competenze e anche per tipo di condominio che amministrano, ecc.  l’AC è un operatore che agisce in un contesto molto importante per le persone – il posto dove queste abitano. Possiamo dire che l’AC, con il suo operato, contribuisce alla qualità della vita delle famiglie e alla qualità della convivenza di queste all’interno del condominio in cui abitano.

L’AC ha a che fare con persone  e condomini di tutti i tipi, con grandi differenze fra loro e incontra persone con ogni genere di  difficoltà. Il suo lavoro è fatto di relazioni che spesso rappresentano un difficile e pesante impegno. Le persone hanno aspettative molto elevate rispetto al proprio amministratore. E lui/lei  deve saper mettere in campo competenze tecniche, giuridiche e amministrative, ma anche capacità di ascolto e calore umano.

Infatti spesso l’AC  è un punto di riferimento per questioni che vanno oltre le competenze tecniche e/o giuridiche del ruolo e a lui/lei arrivano i problemi che le persone e le famiglie incontrano, a volte molto prima che le stesse si rivolgano, se mai lo faranno, ai servizi deputati ad occuparsene. La crescente solitudine delle persone e il conseguente diffuso bisogno di ascolto spingono le persone a rivolgersi all’AC e a ricercare in lui/lei un aiuto, un consiglio per le più diverse questioni.
Di fronte a questa situazione, gli amministratori possono scegliere due strade: adottare  adeguate misure per proteggersi od organizzarsi per assecondare e “governare” queste richieste.

La mia ipotesi è che sia  utile percorrere la seconda strada. Ma penso che ciò sia possibile se le istituzioni, i media,  l’opinione pubblica,  i condomini e gli amministratori stessi   concepiscono  il lavoro dell’AC anche come lavoro sociale.  E questo non è scontato. O per lo meno, non lo è per tutti.

Per questo è necessario sottolineare che l’AC affronta questioni che riguardano le persone e, inevitabilmente, le loro relazioni e non solo questioni che riguardano gli edifici. Viene chiamato e deve saper intervenire nelle diverse situazioni, fornire risposte efficaci ai problemi, mettersi personalmente al riparo dai rischi, e anche promuovere benessere relazionale. Un bene questo, poco presidiato, poco promosso, ma che comunque incide sul benessere delle persone e delle famiglie e in ultima analisi anche sul clima all’interno del condominio.  Non c’è da spiegare  come una convivenza serena fra i condomini sia un fattore di benessere per le singole persone, ma anche per il condominio e per chi lo amministra.

Prendiamo ad esempio ciò che accade in relazione alle  parti comuni del condominio, oggetto specifico di lavoro dell’amministratore. Ciò che le persone hanno in comune e che sono tenute a condividere rende  necessaria l’interazione fra i condomini  e spesso è motivo di discussione e, in alcuni casi, di conflitti e litigi. Un banco che mette a dura prova la pazienza e le competenze dell’amministratore. Ma anche una preziosa opportunità per far crescere il senso di appartenenza e per  promuovere il senso di comunità fra le persone. Con il  vantaggio  di avere un condominio più sereno, meno litigioso e di conseguenza di fare un lavoro meno stressante.

Non si tratta tanto di mettere in atto puntuali azioni di conciliazione, pur necessarie in molti casi di conflitti fra condomini, quanto di muoversi con una logica coerente di promozione di comunità, cominciando dal favorire la conoscenza fra le persone, l’ascolto reciproco, permettendo alle persone di ritrovare l’utile e il bello e non solo il vincolo e la fatica della condivisione.

Gli amministratori potrebbero essere in condizione di fare ciò perché sono a contatto con le persone, in molti casi godono della loro fiducia e sono considerati autorevoli. Se non lo fanno è perché preferiscono stare su un terreno più sicuro e più conosciuto,  perché promuovere la comunità dei condomini non è un compito che qualcuno chiede loro o perchè non sempre hanno le competenze per farlo.

Naturalmente tutto quanto detto  non esclude e non rende meno importanti le competenze giuridiche e tecniche. Le completa. Ma in una nuova e più significativa rappresentazione del ruolo che non può prescindere anche da una chiara impostazione e consapevolezza etica del lavoro dell’amministratore condominiale, dalla trasparenza della gestione e del rispetto delle persone.

Senza il presidio di questi aspetti, le varie tecniche di comunicazione, che spesso vengono insegnate nei corsi di formazione a cui volentieri partecipano gli amministratori, potrebbero sostenere la furbizia, l’astuzia, la  manipolazione e, nella peggiore rappresentazione, l’imbroglio. E non sarebbero un gran contributo alla costruzione o ad una evoluzione più positiva della rappresentazione sociale della figura dell’amministratore condominiale.

Sono convinto che sia importante dare valore al lavoro sociale che alcuni amministratori di condominio più sensibili già fanno di loro iniziativa e senza alcun riconoscimento. Nominare e dare visibilità a questa vocazione sociale nella quale alcuni amministratori condominali si riconoscono può permettere di dare a molte persone un punto di riferimento a loro prossimo, di mettere a disposizione una risorsa preziosa anche per le istituzioni che potrebbero trovare negli amministratori dei preziosi collaboratori, se coinvolti nel modo giusto.

C’è un problema però.

Nell’insieme indifferenziato degli amministratori condominiali, tutti vengono considerati nello stesso modo. Non è possibile distinguere chi fa un lavoro orientato alle persone e chi no, e alla fine sono tutti uguali. Questo è un problema per alcuni AC che vorrebbero dare visibilità alla loro diversità, per i condomini che non sanno su quali competenze possono contare e per gli enti che non sanno su chi poter fare affidamento.

E’ per dare visibilità a questo orientamento sociale che abbiamo deciso di promuovere la  figura dell’amministratore condominiale a vocazione sociale. Un amministratore che svolge tutte le funzioni proprie del ruolo, ma a queste aggiunge, in modo esplicito,  il lavoro sociale che si trova a fare semplicemente perché incontra le persone, nelle più diverse condizioni e con i più diversi problemi. Si occupa quindi degli edifici e delle persone che ci vivono in una prospettiva che potremmo dire integrata.

In quanto operatore sociale vicino alle persone, l’amministratore condominiale a vocazione sociale è una risorsa preziosa per loro, ma anche per i diversi servizi che possono interagire con lui. Per le competenze che ha e per ciò che può fare, può essere visto come figura di grande utilità sociale, specialmente in questo  momento di crisi generale, in cui aumentano i problemi, diminuiscono le risorse ed è necessario inventare nuovi modi per rispondere ai bisogni di individui, famiglie e collettività.

Elvio Raffaello Martini