La povertà relazionale è un fenomeno sociale in crescita nel mondo occidentale. Non riguarda solo le persone anziane e spesso si accompagna alla povertà economica, abitativa e di istruzione. L’ultimo censimento generale della popolazione italiana del 2016 dice che più di una famiglia su tre (il 31,6%) è formata da una sola persona. Nel 2013 erano il 30,1%.

“Se dovessimo stare ai numeri, – scrive Alessandro Rosina, Docente di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano – il nostro paese è ormai abitato da una popolazione di persone sole”. Gli italiani che vivono da soli sono 8,5 milioni (40% vedovi, 39% celibi o nubili, 21% separati). Il 38% delle persone che vivono da sole ha oltre 75 anni.

Circa 3 milioni di persone dichiarano di non avere una rete di amici, né una rete di sostegno, né partecipano a una rete di volontari organizzati (Rapporto annuale Istat 2018). Il 7,7% delle persone che vivono da sole sono senza reti esterne alla famiglia e la percentuale sale al 15,6% per gli anziani.

La solitudine è particolarmente grave per quegli anziani che trascorrono il 70% del tempo da soli senza alcuna compagnia

La solitudine non riguarda però solo le persone anziane, anche se è di queste che intende occuparsi il presente progetto, ma anche le famiglie, le neomamme mamme e i giovani, oltre alle persone che presentano aspetti di fragilità.

Assai preoccupante, ad esempio, è il fenomeno definito Hikikomori (termine giapponese che significa stare in disparte), che riguarda i giovani fra i 14 e i 25 anni che non studiano né lavorano, non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata nella loro camera. A stento parlano con genitori e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi confronto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della Rete e dei social network con profili fittizi, unico contatto con la società che hanno abbandonato.

I fattori che concorrono a determinare la solitudine sono molteplici e vanno dai cambiamenti nella composizione familiare, alle scelte di vita delle singole persone, alle disponibilità economiche, alle condizioni sociali, al sistema di welfare, ma dipendono anche dall’ambiente dove si abita.

Tuttavia, non c’è un rapporto diretto fra abitare da soli e la solitudine. Si può essere e, soprattutto, ci si può sentire soli anche in mezzo alla gente, quando non ci sono connessioni e non c’è comunicazione. La solitudine e il sentimento di solitudine non dipendono quindi solo dall’isolamento fisico, ma sicuramente il luogo dove uno vive e la qualità delle relazioni di vicinato possono accentuare o attenuare la solitudine.

Al di là dei valori e dei comportamenti dei singoli, la solitudine è anche una conseguenza di una scarsa assistenza sociale e di un welfare inadeguato o mancante.

La solitudine, intesa come assenza di relazioni, è un problema personale e un problema sociale al tempo stesso, è causa di malessere soggettivo o psicologico e un danno per la salute fisica e un fattore di rischio per il decadimento cognitivo.  Di solitudine ci si può ammalare e si può morire. L’isolamento sociale può innestare una spirale perversa che porta la persona a chiudersi sempre più in se stessa e nel proprio mondo.

Il neuroscienziato sociale dell’Università di Chicago, John T. Cacioppo, autore del libro Loneliness: Human Nature and the Need for Social Connection[1] (Solitudine: natura umana e il bisogno di connessioni sociali) sostiene che

“la solitudine è un segnale di dolore che spesso la società non recepisce (….). Per intensità e carica devastante, potremmo paragonarla alla rabbia o alla sete” (….) “un senso di isolamento o rifiuto sociale sconvolge non solo le nostre capacità mentali e di alimentazione, ma anche il nostro sistema immunitario e può essere dannoso quanto l’obesità o fumare.

La psicologa Susan Pinker nel suo libro The Village Effect  (2015) sostiene che il contatto faccia a faccia è cruciale per l’apprendimento, la felicità, la capacità di recupero e la longevità.

“Dalla nascita alla morte, gli esseri umani sono fatti per connettersi ad altri esseri umani. Il contatto faccia a faccia è importante: i legami stretti di amicizia e amore ci guariscono, aiutano i bambini a imparare, a prolungare la vita e a renderci felici. Anche i legami personali più tenui contano, combinandosi con le nostre relazioni intime per formare un “villaggio” personale attorno a noi che ha effetti unici. I social network non bastano: abbiamo bisogno degli incontri reali, in carne e ossa, che legano insieme famiglie umane, gruppi di amici e comunità”.

Insomma, nessuno può essere felice nella solitudine, specie se non scelta, e il problema non è solo la solitudine materiale, ma anche la solitudine affettiva. Non avere qualcuno per cui si è importanti e non avere nessuno che è importante per noi è una condizione esistenziale molto triste.

Secondo Cacioppo, il modo con il quale gestiamo i legami sociali, sia come individui che come società, influisce in modo positivo e negativo sulla nostra vita.

La solitudine non può essere un problema di cui si occupano in modo esclusivo i servizi, neanche quelli forniti dal volontariato, e il contrasto alla solitudine non può essere affidato alla logica delle prestazioni.  Però, se la solitudine è una malattia, va curata con mezzi appropriati e, soprattutto, va fatto tutto il possibile per prevenirla con il concorso di molteplici attori e con strategie che integrino politiche sociali, politiche urbanistiche, politiche abitative, politiche culturali, lavoro professionale e impegno civico.

Molte associazioni di volontariato, ma anche istituzioni e servizi pubblici promuovono progetti con l’obiettivo di contrastare/alleviare la solitudine, a volte troppo tardi per mettere in campo interventi veramente efficaci e accontentandosi di limitare i danni.

Alcuni progetti agiscono in termini preventivi, ad esempio attraverso la ricerca di soluzioni abitative collaborative, come il cohousing, o proponendo occasioni di partecipazione e di impegno civico. La solitudine infatti si può contrastare anche attraverso l’impegno e la partecipazione civica, la tutela dei diritti, la ricerca di soluzione non violente dei conflitti, la lotta ad ogni forma di ingiustizia, di esclusione e di discriminazione.

La cura delle relazioni e anche le buone pratiche di vicinato, basate sulla cooperazione, la condivisione e le ricerca di modalità creative di comporre i conflitti e di rispondere alle nuove esigenze sono fondamentali anche per prevenire la solitudine e per alimentare la serenità individuale e collettiva.

 

[1] LonelinessHuman Nature and the Need for SocialConnection, by John T. Cacioppo and William Patrick. New. York, W.W. Norton, 2008.