Nel 1946 l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute come uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia. Risale quindi a settanta anni fa il passaggio da una concezione prettamente organicista del concetto, confinata in modo rigido a un solo ambito (quello medico), a una più sfaccettata e complessa, che considera la salute come il risultato dell’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali. Essere in salute, quindi, non significa solo che stiamo “oggettivamente” bene da un punto di vista “fisico”. Ma cosa intendiamo esattamente quando parliamo del benessere psicosociale come uno dei “determinanti di salute”? Ebbene, il benessere psicosociale ha a che fare con il contesto sociale e, nello specifico, la qualità delle relazioni che la persona intrattiene all’interno del proprio luogo di vita. Stare bene con le persone con le quali condividiamo la nostra quotidianità permette di sentirci meglio.

Andiamo oltre.

Nel 1986, quaranta anni dopo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Carta di Ottawa introduce il concetto di promozione della salute, inteso come il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla.
Ricapitolando, quindi, per la comunità scientifica la salute è data da un insieme di componenti bio-psico-sociali e possiamo promuoverla rendendo le persone sempre più capaci di riconoscere e “maneggiare” quelle componenti interrelate, che non riguardano quindi solo il modo in cui viviamo ma anche quello in cui con-viviamo, cioè viviamo insieme agli altri. E’ evidente quindi che il vero nocciolo della questione sta nel “come si fa” ad aumentare la consapevolezza e la capacità di azione delle persone in merito.
Se dal punto di del benessere psicofisico sono molte le azioni di promozione della salute che i diversi professionisti e il sistema sanitario possono rivolgere (e già rivolgono) ai singoli, sul fronte psicosociale c’è una riflessione urgente da fare.

Una storia, dal lavoro che come assistente sociale svolgo sul territorio, mi pare interessante.
Incontro una coppia di anziani, un’ottantina d’anni a testa. Lui, con una patologia invalidante agli occhi, non può più guidare; lei non ha mai guidato. Abitano in un condominio di edilizia pubblica situato in una zona periferica e collinare, con molto verde e tanta tranquillità. Di contro, in questa frazione non c’è nessun servizio e nessuna fermata del trasporto pubblico a meno di una quindicina di minuti a piedi. I figli della coppia abitano lontano, come accade in molti casi. Mentre raccolgo queste informazioni, il mio pensiero va già alla domanda di mobilità da presentare al Comune. Comincio a esplorare questa ipotesi ma subito mi dicono che non vogliono spostarsi. Chiedo quindi come fanno a fare spesa o andare dal medico. Mi rispondo, con estrema naturalezza: “No Signora, ma per quello ci sono i nostri vicini di casa!”. Non posso fare a meno di guardarli con stupore. Alcune famiglie che abitano accanto a loro li aiutano per queste necessità e loro si “sdebitano” in qualche modo con tanti piccoli favori, dalle marmellate fatte in casa all’annaffiare i fiori e così via. E da questo scambio di favori è nata con alcuni un’amicizia, con altri quanto meno un bel sodalizio, che va avanti da anni e pare sopravvivere alle naturali difficoltà della convivenza e anche alle temute assemblee di condominio. Queste persone sono riuscite a “fare il miracolo” di convivere serenamente, pur nella loro diversità, e ne guadagnano sul piano pratico e relazionale.

Torniamo quindi al benessere psicosociale, come determinante di salute. Per quella coppia anziana il problema oggettivo dell’isolamento abitativo non è diventato bisogno di spostarsi altrove (con tutta la fatica e lo sradicamento collegato) solo grazie al supporto dei vicini di casa. Quel contesto sociale è stato supportivo e ha generato welfare, per tutti.

Questo esempio, piccolo e virtuoso, mi pare testimoni in che direzione occorre lavorare quando si parla di benessere psicosociale: e cioè nella direzione di una svolta culturale.

Sul fronte individuale, bisogna favorire l’apprendimento e l’insegnamento delle conoscenze e delle strategie che permettono di vivere in un contesto più salutare, non solo dal punto di vista psicofisico ma anche da quello psicosociale. E’ essenziale infatti riconoscere che il nostro stato di salute dipende anche dagli Altri, in molti modi: dalle opinioni che hanno su di noi e che ci influenzano, ai modi in cui si prendono cura di noi e ricevono le nostre cure, alla partecipazione che insieme a noi possono esprimere, fino alla soddisfazione di un bisogno di socialità che tutti sentiamo. Senza contare che la percezione di appartenenza a un gruppo, il senso di comunità, influisce positivamente sul benessere personale. In sostanza, bisogna prima riconoscere che è importante stare bene insieme e poi imparare a stare bene insieme.

Dal lato istituzionale e dei rappresentanti della comunità, è necessario e anzi urgente che venga accolta davvero la complessità del concetto di salute, si riconosca la comunità locale come soggetto entitled, cioè capace di apprendere e pronunciarsi in merito, e si investa sui professionisti che operano nel territorio come agenti di cambiamento che lavorano in modo strategico per “mettere in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla” (così come scritto a Ottawa). E’ un lavoro insieme educativo e di ricerca e negoziazione fatto per la comunità e con la comunità. Un lavoro che richiede tempo, energie e riconoscimento da parte delle istituzioni.

Solo in questo modo, ripartendo dalla definizione di salute come concetto multidisciplinare e portando avanti un’azione seria e continuativa anche sui fattori psicosociali, oltre che su quelli biologici, è possibile impostare un lavoro completo di promozione della salute.